07/01/11

IN CAMMINO CON IL BUDDHA

DISCORSO DI DHARMA - PIAN DEL CILIEGI, RITIRO DEL 12 SETTEMBRE 2010

di Diana Petech
Buongiorno, cari amici!
– o meglio: “caro Thây, caro Sangha”,
sono molto felice che ci sia un cuscino libero in prima fila: è il posto per Thây. Mi riempie il cuore, questo; spero di parlare, sia pure per una piccola parte, con la sua voce. È un augurio che mi faccio guardando quel posto.
Come detto ieri, il soggetto di questo fine settimana di pratica è il cammino nei suoi due significati: la meditazione camminata come strumento di pratica e il percorso spirituale.

Intorno alla nascita dei Grandi Esseri si creano sempre dei miti, per sottolinearne l’eccezionalità – pensiamo per esempio alla nascita di Gesù Cristo dalla Vergine. Come ci riferisce Thây in “Camminando con il Buddha”, la tradizione racconta che il Buddha sia nato uscendo dal fianco di sua madre, e che appena nato abbia fatto sette passi (quindi sia nato già in grado di stare in piedi e di camminare), e ad ogni passo sotto ai suoi piedi sbocciasse un fiore.
Thây insiste su questa immagine, insegnandoci la meditazione camminata, proprio per dire che fin dalla nascita noi esseri umani abbiamo in noi la potenzialità di essere dei Buddha.
Noi siamo della sua stessa specie: con il nostro camminare possiamo far sbocciare fiori sotto ai nostri piedi. Questa è una bellissima immagine simbolica; andiamo a vedere a che cosa si riferisce, che cosa significa.
“In cammino con il Buddha” è il titolo di questo nostro incontro, dove “con il Buddha” significa sicuramente insieme al Maestro, ma soprattutto con la nostra mente risvegliata.
La mente si manifesta nel comportamento, altrimenti non si avrebbe nessuna percezione esterna della sua presenza, della sua attività; si concretizza e si manifesta in come ci si comporta, come ci si muove, come si entra in relazione con le altre persone e con il resto del mondo; mi viene in mente una frase di uso comune che ha un grande significato: si manifesta nel nostro modo di “muoverci attraverso la vita”. Nella meditazione camminata possiamo esercitare la nostra massima aspirazione riguardo al modo in cui ci muoviamo nella vita: da persone integre, da persone regali nella loro essenza, e allo stesso tempo che hanno l’umiltà di riconoscere il sostegno della Terra e degli altri esseri.
Ecco, “muoversi attraverso la vita”: noi stiamo qui per percorrere un sentiero; che cosa ci ha portato su questo sentiero? Un’aspirazione alla completezza, un’aspirazione a diventare esseri umani nel senso più alto della parola. In tedesco lo chiamano Mensch, cioè l’essere umano completo, nella pienezza della sua maturità (mentre il termine Mann indica semplicemente l’essere umano di sesso maschile).
È uno slancio che risale, credo, fin dall’origine dell’essere umano in quanto tale, quello che si è evoluto dai primati che sono scesi dagli alberi, che hanno cominciato a mettersi in stazione eretta, a usare le mani; e dall’uso delle mani è venuto un enorme slancio allo sviluppo del cervello, delle facoltà cognitive, delle capacità di agire sulla realtà. Quello slancio alla completezza, allo sviluppo ci ha portato fino al nostro agire di oggi, che è estremamente sottile e raffinato e purtroppo anche estremamente potente.
Dico “purtroppo” perché siamo bravissimi anche a combinare un sacco di guai – pensiamo anche solo a quel pozzo di petrolio che sta riversando tonnellate di petrolio nell’Atlantico… “Purtroppo” abbiamo sviluppato grandissime capacità di influire sulla realtà... Questa è solo una battuta: purtroppo o no, il dato di fatto è questo, la realtà è questa.

Possiamo fare un parallelo tra l’evoluzione della specie umana e la nostra personale evoluzione. Da bambini piccoli gattoniamo a quattro zampe, e in quella fase tutto “è mio” (avete presente da bambini?). Ed è una fase necessaria, sacrosanta, perché è quella in cui ci si differenzia, si comincia a capire che la mamma è “altro da sé”, e che si può entrare in relazione con questo altro, e all’inizio l’unica relazione che ci rassicura, che conosciamo, è il possesso: dire è mio.
Riportiamo questo agli adulti: all’inizio del sentiero è “mio” tutto: la mia mente, la mia realtà, o almeno quella che vorrei io; mio marito, mia moglie, mio figlio,il mio lavoro, la mia casa, tendiamo a pretendere che le cose siano adeguate al nostro desiderio di possesso e di governo. Poi gradualmente si affinano i mezzi, si affinano le capacità, e si ha una crescita graduale verso un uso più sottile dei propri poteri, delle proprie capacità, delle “mani” – intese in senso spirituale, quindi dei propri strumenti. Dai condizionamenti, dagli automatismi, dalla proliferazione mentale, ossia quel rimuginìo che ci impesta la mente, man mano che tutto ciò si riduce si passa gradualmente alla quiete, alla saggezza non discorsiva (prajña), alla Natura di Buddha.
Alla luce di questo parallelo, possiamo vedere il nostro “cammino con il Buddha” come un percorso del tutto naturale; quindi non possiamo forzarlo, non possiamo pretendere di essere risvegliati subito, né possiamo dispiacerci delle varie tappe che tocchiamo: nessuno se la prende con un bambino di un anno e mezzo se non è capace di andare in bicicletta; o se a tre anni non sa fare, che so, un tuffo elaborato con tre avvitamenti: ma poverino, è ovvio: le sue capacità in quel momento sono impegnate ancora a imparare a stare in piedi e a camminare.
Anche le nostre capacità, in ogni tappa del nostro cammino con il Buddha, sono quelle di imparare quella fase. A tutti noi secca non essere al risveglio, non esserci arrivati: “Ma come, sono sei anni che pratico (o otto o dodici) e mi ritrovo ancora in questa fase?” Succede perché guardiamo quello che abbiamo davanti e tendiamo a non guardare quello che abbiamo dietro.
La fase che sto attraversando adesso è fisiologica e naturale rispetto al percorso.
La cosa interessante è sapere che stiamo facendo un percorso; i tempi necessari e la capacità di sviluppare tutte le nostre qualità, le nostre doti, sono individuali; ognuno di noi avanza più in fretta in qualche cosa e resta più indietro in qualcos’altro. Quel che conta è sapere che c’è una direzione, in questo progresso; ma su questo vorrei tornare più tardi.

“Camminare attraverso la vita” in direzione del Buddha che è nell’essere umano, cioè dell’essere umano completo, solido, maturo, gioioso, capace di generosità, capace di stabilità, sano, significa imparare piano piano a usare tutti i mezzi che ci hanno dato i Grandi Maestri, le nostre guide spirituali, la nostra tradizione religiosa se siamo credenti; tutti gli strumenti forniti da coloro che ben prima di noi hanno raggiunto questo stato; quindi tutti i Grandi Esseri di tutte le religioni sicuramente, ma anche di tutte le filosofie, intese come scuola di vita.
Anche noi abbiamo alle spalle una tradizione spirituale non da poco: Gesù Cristo, i santi, e Socrate, Marco Aurelio, Epitteto, per parlare di grandi… Perché dunque “camminare con il Buddha”? Semplicemente perché la via del Buddha che ci dà degli strumenti per continuare a camminare sullo stesso percorso spirituale di tutti questi Grandi Esseri, articolati in maniera che riusciamo a coglierli con la nostra mente di oggi. Il cammino spirituale perso la completezza dell’essere, dunque, non è selettivo: non posso dire “io cammino con il Buddha ma non con Socrate”. Personalmente, io sono occidentale e sono orgogliosa, sono grata di avere alle spalle tutti questi Maestri; sembrerà paradossale ma li capisco meglio da quando mi sono incamminata con il Buddha.
Vediamo nel dettaglio che cosa possiamo fare per “camminare in questo sentiero con i piedi di un Buddha” dopo un suono di campana.



Parliamo di meditazione camminata. Abbiamo volutamente programmato la meditazione camminata all’aperto dopo il discorso, in modo da poter portare con noi nella pratica le cose che sentiremo nel discorso e sperimentarle. È tutta pratica, non serve a niente se resta teoria.
Sappiamo tutti che la meditazione camminata al chiuso, cioè quella che si fa nello Zendo, è diversa da quella che si fa all’aperto. Alle volte ci sfugge questa diversi differenza; la sintetizzo brevemente: nello Zendo, quella che si fa tra le sessioni di meditazione seduta, è una meditazione camminata rigorosamente mantenuta sulla corrispondenza: un passo  un atto respiratorio, quindi: inspiro/piede sinistro, espiro/piede destro.
In quel momento è quello che stiamo facendo tutti: siamo un organismo che si muove tutto intero, in cui tutti inspirano appoggiando il piede sinistro e tutti espirano appoggiando il piede destro. Sentiamo la presenza degli altri, sentiamo il sostegno del pavimento, e sentiamo la dimensione del nostro corpo, lo spazio che occupiamo.

La prima cosa che mi viene da notare è quanto poco siamo abituati a leggere il terreno con i piedi.
Spesso nella meditazione camminata nello Zendo si vedono persone camminare guardandosi i piedi. Ora, lo Zendo, per definizione, è un luogo protetto e sicuro, in cui non ci sono ostacoli per terra; come mai questa nostra tendenza a non credere alle informazioni che ci danno le nostre estremità, che pure fanno parte del nostro corpo, e ad avere bisogno di una conferma visiva? I piedi sono sicuramente lì, non c’è bisogno di controllare con lo sguardo. Anche il pavimento è sicuramente lì. [risate]
Forse dipende da due elementi: uno è che non siamo abituati per niente a camminare lentamente, e quindi è come se ci aggrappassimo a qualcosa con gli occhi per cercare di essere più stabili. Ci dimentichiamo che non saranno gli occhi ad aiutarci, in questo. L’essere umano si è messo in piedi sfidando le leggi della gravità, infatti la parte più pesante del suo corpo, la testa sta in alto. Questa è una posizione piuttosto instabile, infatti sono state necessarie molte compensazioni e molti adattamenti; sappiamo tutti quanto sia delicata la nostra struttura, con quanta facilità ci venga mal di schiena.
Quindi se non riusciamo a camminare piano senza vacillare è perché siamo abituati a camminare come se andassimo in bicicletta: di slancio. Al di sotto di una certa velocità, in bicicletta facciamo molto fatica ad andare dritti, sbandiamo, o cadiamo. Lo stesso camminando, almeno all’inizio. Il centro del nostro corpo è qui [indica la pancia], un paio di dita sotto all’ombelico, all’interno, come sanno tutti quelli che hanno fatto arti marziali, ed è il centro di gravità, oltre ad essere un centro energetico molto importante.
Essendo qui il nostro centro di gravità, gli occhi non c’entrano un granché; possiamo metterli a riposo, portare avanti il nostro centro, metterlo in contatto con il terreno tramite i piedi, e lasciar parlare i piedi. I piedi ci dicono che non ci sono ostacoli, che il terreno è liscio e uniforme.
Questa indicazione la possiamo leggere anche in senso metaforico: spesso nella pratica supponiamo o sospettiamo molti più ostacoli di quanti non ce ne siano realmente...
“La pratica è una cosa semplice”, ce lo siamo sentiti dire da Thây e da altri Maestri. È semplice – basta farla… (un ostacolino non da poco questo!).
Il pavimento dello Zendo, dicevo, è liscio; lasciamo che siano i piedi a parlare; il nostro centro di gravità si muoverà parallelamente al pavimento, cioè il centro del nostro ventre traccia una linea parallela a terra. Con questo voglio dire che occorre riportare un po’ di semplicità nel nostro avanzare sul cammino.

Camminare senza guardarci i piedi ci porta a camminare a testa alta – altra frase che ha un contenuto simbolico non da poco! Se ci pensiamo bene, in certe trasformazioni culturali si va da un eccesso all’altro; dunque per controbilanciare l’arroganza, anche la prepotenza di una certa epoca, di una certa cultura collettiva subito precedente alla nostra, ci è stato insegnato che bisogna essere umili, che bisogna guardare per terra, è bene tenere gli occhi bassi, la testa bassa.
Tenere la testa alta sarebbe dunque segno di arroganza? Ma quando mai! Tenere la testa alta significa: sono qua, tutto intero, e rivolgo lo sguardo alla realtà tutta intera, ovvero non mi guardo i piedi, che è già una limitazione, un chiudersi, un restringere il proprio orizzonte per cui si finisce per vedere solo quel metro quadrato su cui ci si sposta.
Anche qui, cogliamo il simbolismo di queste espressioni? La ristrettezza di visione, non vedere tutto quello che c’è intorno, non vedere l’intero orizzonte.
C’è un’espressione che usavo insegnando Tai Chi che mi piace molto: “Tenere gli occhi all’altezza degli occhi”. Possiamo lasciar cadere l’idea che tenere lo sguardo alto sia segno di arroganza: è una formazione mentale che ci hanno appioppato per ragioni culturali, possiamo liberarcene, e dargli semplicemente il significato di un segno di integrità, di coscienza dell’essere “in mezzo a”, dell’essere “in comune con”, dell’essere “insieme a”, di essere una manifestazione di un organismo più grande, che colgo con tutto il mio sguardo.
Ho diritto a camminare qui, in questo Zendo, su questa Terra, come ce l’hanno tutti quelli che stanno intorno a me. Testa alta e occhi aperti: la meditazione camminata, nello Zendo e fuori, si fa con gli occhi aperti, proprio per il fatto che è un’azione collettiva quanto individuale. E si fa mantenendo una certa equidistanza con chi ci precede e con chi ci segue, quindi se possibile non andando addosso a chi ci sta davanti, non facendo da “tappo” a chi ci viene dietro.

Sentiamo l’eco che queste parole fanno risuonare in noi? Sentiamo che “Non stare addosso a qualcuno” può significare anche non pretendere che vada più veloce, che vada col nostro passo, che cammini come vogliamo noi, che sia vestito, calzato come vogliamo noi, che abbia il colore delle pelle che vogliamo noi, il modo di esprimersi che vogliamo noi?
Allo stesso tempo ci viene chiesto di non frenare gli altri, non camminare a un’andatura lentissima a passi cortissimi che genera l’ingorgo nello Zendo… vediamo che come possiamo leggerlo altrimenti…“io mi faccio gli affari miei, vado come mi pare e chi sta dietro si arrangi...”
Ancora una volta, su questo cammino la nostra è la Via di mezzo; il sentiero del Buddha è la Via di Mezzo. La via di mezzo in questo caso, durante la meditazione camminata nello Zendo, contiene potenti informazioni sul nostro modo di procedere, di stare nel percorso.
Visualizziamoci un momento camminare nello Zendo e vediamo quanta importanza diamo alla meditazione seduta e quanta alla meditazione camminata. Cerchiamo di capire se riusciamo davvero a tradurre la meditazione camminata come vero e proprio atto di meditazione, o se piuttosto non tendiamo a sentirla come una pausa, un intervallo, una “ricreazione” tra due sessioni di meditazione seduta.

A questo punto possiamo portare la stessa modalità, la stessa metodologia, parlando di meditazione camminata all’aperto.
Anche all’aperto la meditazione camminata è comunque una pratica meditativa; alle volte ci viene difficile distinguere dalla “passeggiata”. Vado a fare una passeggiata o vado a fare una meditazione camminata sono due cose distinte. Alle volte ci viene difficile, fino a quando non facciamo una meditazione camminata insieme a Thây: ci rendiamo conto che lui davvero fa la meditazione camminata e che è un filo diversa da quella tendiamo a fare noi, soprattutto nei posti belli, nella natura.
Innanzitutto sappiamo che anche la meditazione camminata all’aperto consiste nello stare in collegamento con il respiro e i passi; però si fanno più passi per ogni atto respiratorio. Quando fa freddo, ad esempio, non è opportuno fare una meditazione camminata lenta, altrimenti ci si congela: si fa una meditazione camminata bella vigorosa, si possono fare quattro passi per l’inspirazione e quattro passi per l’espirazione. Oppure si può sperimentare, ci suggerisce Thây sempre in “Camminando con il Buddha”, la versione tre per l’inspirazione e quattro per l’espirazione, cioè permettere all’espirazione di essere leggermente più lunga. Questo fra l’altro favorisce alla pratica del lasciar andare, del mollare le tensioni.
Quante volte ci siamo sentiti dire: “se sei teso, se sei turbato, se sei arrabbiato, non fare niente, ma pratica la consapevolezza del respiro e la meditazione camminata.” C’è anche negli Addestramenti. In questi casi, una meditazione camminata vigorosa, di sei passi inspirando e sei passi espirando, ha un grandissimo effetto. Non solo come sfogo.
Intanto ha un effetto fisiologico perché ci ossigena.
Quando ci arrabbiamo ci si contrae tutto, ci viene un blocco allo stomaco, la gola si chiude, magari chiudiamo anche i pugni, qualcuno anche le mandibole, diventiamo una specie di bombetta compattata pronta ad esplodere… dobbiamo sfogare da qualche parte, dobbiamo far uscire questa energia da qualche parte. Camminare veloci ci fa sfogare questa energia, e allo stesso tempo ci ossigena, rimette in circolazione il nutrimento, il che ci può ridare anche la misura del dove siamo e del contesto.
A parte questa funzione, c’è anche quella di concentrarci sui passi e sul respiro farci, il che ci permette di prendere distanza dall’accaduto: dopo potrò osservare con mente più limpida, non adesso, dopo – perché adesso sarei in grado soltanto di rimuginare, accusare, inveire, sentirmi nel giusto e dare tutta la responsabilità all’altro ecc. ecc., …conosciamo tutti benissimo…

La meditazione camminata all’esterno è dunque, anch’essa, fatta di passo e respiro; sta a noi osservare il contesto e la situazione e scegliere se fare tre passi inspirando e quattro espirando, o due e due o altro; basta esserne consapevoli. È chiaro che se andiamo in salita saranno di meno perché abbiamo bisogno di più ossigeno, se andiamo in piano o in discesa faremo più passi, a seconda di come ci si sente.
Anche all’esterno il contatto col terreno su cui poggiamo è sostanziale.
All’inizio questa del contatto col terreno mi pareva una cosa un po’ mentale, un po’ “di testa. La risposta mi è venuta constatando una cosa, che ogni tanto poi negli anni mi ritrovo a richiamare alla mente: che mi fa bene, se possibile, fare la meditazione camminata con scarpe con suole molto morbide e sottili. Ovviamente sto parlando di un terreno “medio”, normale; non in un trekking in Himalaya, di certo, non in alta quota sulle Alpi. In scarpe da tennis su una morena di ghiacciaio si va solo in cerca di guai! Però su un terreno normale, la suola sottile e flessibile permette di percepire quello che c’è sotto i piedi.
Sento già l’obiezione: “…ma si sentono tutti i sassi!” . Già. Ottimo. Se cammino su un terreno sassoso è bene che io senta i sassi. È semplice contatto con la realtà.
Cos’è che ci fa male sotto i piedi? Non sono i sassi in sé, è tenere il piede rigido: in questo caso tutti i sassolini andranno a pungere gli ossicini, i tendini… e certo che fa male, caspita se fa male! Dopo dieci minuti non ne puoi più e sogni un paio di robusti scarponi con la suola alta così. Se invece il piede è rilassato, morbido, se riusciamo a posare a terra un piede soffice che si adatta a tutto ciò che si trova sotto, allora camminare diventa un piacere, sempre e su qualunque fondo. E i piedi ci mandano delle informazioni, e scopriamo di potere camminare su un terreno molto più accidentato di quanto non pensassimo. Questa è l’altra faccia della medaglia del camminare nello Zendo dove non ci sono ostacoli: nel caso della camminata esterna è opportuno guardare ogni tanto per terra per vedere eventuali ostacoli; ma sono soprattutto i piedi a darci informazioni a patto di non impedirglielo mettendo delle scarpe molto grosse, a meno di non tenerci staccati, protetti dal terreno sul quale camminiamo. Anche qui, ascoltiamo l’eco delle parole: “proteggerci dal terreno”? Entrare in contatto più diretto col terreno ci consente di leggerlo meglio, di cogliere più informazioni che passano da un via non mentale; che, ampliando il raggio percettivo del nostro essere, passano attraverso vie che tendiamo a sottovalutare: intuitive, di propriocezione, tutte quelle che noi tendiamo a mettere in secondo livello rispetto alla via puramente razionale e mentale.
Un po’ di tempo mi aveva colpito molto una frase di Rigoberta Menchu, Premio Nobel della pace del 1992, pacifista guatemalteca che si era battuta per il riconoscimento dei diritti umani nel suo Paese. Era nata e cresciuta in un villaggio, dunque sapeva cosa volesse dire camminare scalza; raccontava come per i suoi piedi fosse naturale “leggere” il terreno; poi, spiegava, “a un certo punto, da grande, sono entrata in contatto con un'altra realtà, più cittadina, e ho dovuto mettere le scarpe; ho fatto una gran fatica ad abituarmi ad andare in giro con gli occhi bendati”. Dunque mettere le scarpe era per lei come avere gli occhi bendati: un impedimento alla percezione. Possiamo tenere a mente quest’immagine quando camminiamo al’esterno. Aderire coi piedi al terreno su cui ci muoviamo ci dà molte informazioni, è come avere degli occhi sotto i piedi.
Ora all’improvviso mi viene in mente di avere visto alcune raffigurazioni del Buddha in posizione del loto con disegnati degli occhi anche sulla pianta dei piedi, non solo sul palmo delle mani com’è in genere raffigurato il bodhisattva Avalokiteshvara…

Al di là della tradizionale camminata, possiamo fare del nostro modo di camminare nella vita quotidiana un campo di visione profonda: possiamo farne un momento di osservazione che ci può dare informazioni su noi stessi. C’è una grande quantità di osservazioni che è possibile fare osservando il modo in cui camminiamo; possiamo coglierle soltanto se il nostro sguardo è perfettamente sereno e aperto, ossia se ci osserviamo con l’amorevolezza e sollecitudine con cui si guarda un bambino che ha appena fatto la conquista del primo passo. Possiamo osservare noi stessi solo se lo facciamo con questa mente benevole e aperta, altrimenti ci irrigidiamo e iniziamo a cercare scuse, giustificazioni, oppure ci vergogniamo, ci umiliamo, il che non è di nessuna utilità.
Allora, proviamo a osservarci con occhi e cuore aperto. Tendiamo a fare il passo più lungo della gamba? [esegue il passo] Notate che a un certo punto cadiamo in avanti, se abbiamo alzato la gamba di più rispetto alla reale lunghezza fisica dall’anca al tallone. Anche qui, facciamo attenzione all’informazione che ci dà il fatto in sé e l’espressione che ne è nata: “fare il passo più lungo della gamba” significa sopravvalutare i propri mezzi, le proprie forze, le proprie misure reali; oppure carenza di autoprotezioni: “posso farcela comunque”. Ed ecco le conseguenze: il peso che cade di colpo sui talloni, con conseguenti microtraumi alla colonna vertebrale; perdita della centratura.
Altra informazione – e altre conseguenze – ci dà la scoperta di fare “il passo più corto della gamba”. Proviamo a pensarci, a visualizzarlo: significa camminare trattenendosi, con prudenza, può significare una sottovalutazione delle proprie possibilità, una scarsa stima di sé. A volte vediamo quelle andature a piccoli passi affrettati, contratti, controllati – e qui c’è un desiderio di controllo, di non eccedere, di non “darsi” interamente; un “andare al risparmio”: in genere è una persona che cammina solo coi piedi, senza oscillare le braccia e senza quel il moto naturale del corpo che accompagna il passo; sono solo i piedi che si muovono, tutto il resto rimane fermo come se fosse in allerta.
Un altro tipo di passo ancora: quello che lasciare giù un’impronta forte. Avete presente, quelle andature pesanti, con il colpo del tallone. Ci si aspetta sempre “unò-dué, passooo…” e il colpo di tamburo, come nelle marce militari. (Far rumore con i piedi, per uno squadrone militare, in origine aveva la funzione era di spaventare l’avversario, di sottolineare la propria consistenza numerica e imponenza fisica… insomma di comunicare il messaggio: “siamo in tanti, e siamo forti, robusti, pesanti”.) Il passo rumoroso col colpo di tallone si ripercuote sul suo autore, si ritorce contro chi lo compie: al di la del fatto che possa impressionare o disturbare qualcuno al di fuori di lui, sicuramente disturba la sua schiena, diventa una violenza auto diretta. È come se la persona avesse bisogno di farsi vedere più forte, potente e rumorosa perché ha tanta paura…
Tutti questi esempi contemplano anche le infinite sfumature intermedie fra un eccesso e l’altro: gli esempi che faccio sono estremi e generalizzanti perché siano ben comprensibili, poi sta a ognuno di noi riportarli alle dimensioni realistiche, che sono sempre più sfumate, meno in bianco-e-nero.
Un altro esempio ancora: quello delle persone che camminano tutte inclinate in avanti potremmo dire “proiettate verso il futuro” – è il mio ritratto di qualche anno fa, e a volte ancora adesso… – . Sono le persone che camminano possibilmente di corsa, fuggendo in avanti, con la testa protesa: tutto nella testa il corpo le arranca dietro. È la preminenza della testa , il pensiero che tira; questo genera delle tensioni innaturali del collo e un po’ dappertutto nel corpo, e soprattutto …“il momento presente questo sconosciuto”: non si è di attimo in attimo sul posto in cui ci si trova ma tutti protesi verso quello che deve ancora venire, che andrà fatto, che dovrà essere eccetera eccetera…

Ecco, possiamo fare la lettura del nostro abituale modo di camminare proprio come pratica di visione profonda della; è essenziale farla sempre con grande amore, in quanto siamo su questa via per prenderci cura; e quello che ne esce possiamo poi utilizzarlo per coltivare l’antidoto – ossia il corrispettivo salutare – nella nostra meditazione camminata. Dunque imparare, allenarci a camminare a testa alta se prima la tenevamo bassa, a utilizzare tutta la lunghezza naturale del nostro passo, a stare nel qui e ora, a camminare con dolcezza accarezzando con i piedi il terreno, eccetera…
Vediamo quindi che praticando la meditazione camminata possiamo agire sull’unità mente-corpo modificandola, che la meditazione camminata non è un modo per essere solo un po’ più calmi, per godere dell’aria fresca o per fare una pausa fra una pratica e l’altra. Possiamo ampliare l’uso dello strumento della meditazione camminata.
Ascoltiamo insieme un suono di campana.



Adesso parliamo del “cammino” nel senso del percorso della nostra pratica. La pratica che abbiamo fatto ieri era una pratica di visone profonda; prima shamata, la pratica di concentrazione e acquietamento, poi eravamo invitati ad osservare la nostra pratica in alcuni ambiti, quelli relativi alle Sei Perfezioni (Paramitā), chiedendoci via via: “A che punto mi trovo rispetto alla generosità? All’apertura? Alla saggezza?” eccetera. Come detto, la condizione essenziale per una pratica di visione chiara è che sia fatta con amorevolezza e senza giudizio. Ma è un atto di valutazione, ed è per questo che sul cammino spirituale è tanto importante distinguere valutazione da giudizio. Noi tendiamo a “buttare l’acqua con tutto il bambino”… Thây continua a ricordarci che ci sono parole che sono ammalate e che hanno bisogno di essere guarite; per esempio, ai nostri giorni ci dà fastidio la parola “valutazione” perché le aggiungiamo arbitrariamente una sfumatura di “giudizio” che non le compete per forza. La valutazione è una funzione necessaria, indispensabile alla nostra vita: per esempio, se devo scegliere una scuola per mio figlio, se devo scegliere una casa, o scegliere come alimentarmi: sono tutte sane operazioni di valutazione. E non necessariamente implica un giudizio negativo: un cibo può essere ottimo in sé ma non adatto al mio organismo; una casa può essere una gran bella casa ma troppo grande o troppo piccola o troppo costosa per me, e così via. Noi utilizziamo la facoltà di valutare ogni giorno, in tutti gli ambiti; dunque se consideriamo sbagliato valutare, tutta la nostra vita nel mondo diventa un bel pasticcio. Soprattutto sul sentiero, se non abbiamo una facoltà di serena valutazione è come se ci trovassimo in una grande città con una mappa stradale in mano: dobbiamo andare in un certo posto, ma per poterlo fare dobbiamo prima sapere dove ci troviamo: il puntino rosso “voi siete qui”. Trovarsi qui invece che lì in sé non è ne bene ne male, è semplicemente un dato di fatto: è qui che mi trovo e da qui devo partire. Questa valutazione, sul cammino spirituale, è una pratica di consapevolezza. Valutare significa vedere con chiarezza a che punto mi trovo in quella specifica cosa – per esempio la conoscenza di una materia in un corso di studi o il radicamento in una determinata pratica in un percorso spirituale –; non significa giudicare il mio valore complessivo di essere umano. Per me è una distinzione davvero sostanziale. Noi tendiamo ad andare per assoluti, ovvero a categorizzare, nel modo tipicamente occidentale che ci porta a dire: “ o di qui o di là”. O bene o male; o risvegliato o un disastro. Invece posso osservare nel dettaglio e notare semplicemente, per esempio: “nella mia pratica dell’inclusività sono rimasto un po’ indietro”. Se per me questa presa d’atto implica un giudizio di valore complessivo, se mi porta a dire che come essere umano valgo qualcosa o non valgo niente, è ovvio che questa attività di visione profonda non la farò mai, o proverò fortissime resistenze a farla: una parte di me si impunterà e la eviterà con ogni mezzo. Cerchiamo quindi di guarire la nostra capacita di valutazione, perché è un’alleata, non una nemica. Esiste un equivoco generato da una tecnica adottata nel cosiddetto “pensiero positivo” di stampo New Age, quella di ripetersi: “sei perfetto così come sei”. Beh,per me è un po’ un guaio: se mi convinco di essere perfetta cosi come sono, perché mai fare un percorso spirituale? Perché dovrei spostarmi da lì? Posso mettermi comoda in poltrona, e che gli altri si arrangino, affari loro; mi sento in diritto di non prendermi cura delle parti di me che hanno bisogno di essere ampliate, allargate, sanate, rese pienamente “umane”: ogni cambiamento, ogni guarigione non è affar mio, se io sono già perfetta così come sono. È ben diverso dal prendere contatto con quello che sono in quel momento, nello specifico in relazione con questo o quell’aspetto di me, e dirmi “faccio amicizia con quello che c’è in questo momento, e a partire da qui so dove sto andando”.

Darsi una direzione di massima da darsi è una cosa; un’altra è avere obbiettivi specifici e rigidi, che per me è una cosa poco sana. Per esempio, se decido che entro tre anni avrò raggiunto il risveglio, mi sto preparando a una bella sofferenza… allora tutte le volte che mi siedo in meditazione lo farò con uno scopo, e allora penserò di continuo: “a che punto sono? Mi manca molto?”. Avete presente gli allenamenti alle olimpiadi? È riconosciuto che per essere ammesso alle olimpiadi devo rientrare in tempi specifici, che so, entro quel dato giorno aver corso almeno una volta i cento piani in almeno dieci secondi; l’obiettivo è dichiarato e misurabile e ha un limite temporale. Sul percorso spirituale non è così, e darsi degli obiettivi fissando un tempo limite è la garanzia di non andare da nessuna parte, di non arrivare a nessun risultato, perchè ogni passaggio, ogni azione verrà condizionata e forzata in quella direzione con uno scopo, il che genera un forte attaccamento a quella idea. Alla fine si mira a soddisfare il proprio attaccamento, non la propria aspirazione.


Nella geometria, la retta è la via più breve per congiungere due punti.

B
A

La realtà della fisiologia umana, invece, e della psicologia è che posso partire verso l’altro punto, poi deviare, trovare qualcosa di più interessante, poi ricordarmi in che direzione andavo, poi fare una piccola ricaduta, poi ricordarmi che volevo andare verso il punto originario e scoprire un’altra via che sembra interessante per arrivarci, ma poi vedo che mi porta troppo lontano …. il cammino dunque è caratterizzato da un moto irregolare che comunque, nel suo insieme, va nella direzione originaria:


A

questa è la nostra realtà, mentre il primo esempio rappresenta una mente dal progresso costante e omogeneo che è una pura astrazione (e che mi sembra, fra l’altro, di una noia mortale…). La cosa sostanziale è comunque sapere in che direzione vogliamo andare.
E sarà chiaro con quest’altro esempio: mettiamo che parto dal punto A, poi per strada incontro un altro stimolo che voglio approfondire, poi sono stanco e mi fermo, mi sono stufato e torno indietro, poi mi chiedo: “dove stavo andando?”




A



... capite bene che così non si va da nessuna parte. Per quanto strano ci sembri, dunque, formulare chiaramente per noi stessi la direzione in cui desideriamo andare è molto utile. La direzione, non gli obiettivi: spesso ci poniamo obiettivi precisi per poi scoprire che gli obiettivi si spostano, e che via via che li raggiungiamo sembrano perdere di valore e se ne presentano altri, e poi altri ancora, e sono tutti obiettivi mobili. E per fortuna! L’importante, torno a dire, è avere un idea della direzione altrimenti si rischia il pantano, passando da una pratica all’altra, facendo un assaggio di tutte ma tirandosi indietro nell’istante stesso in cui nasce una difficoltà. Si rischia che quando arriva la difficoltà, quando troviamo un piccolo muro da scalare, diciamo “questa via non fa per me” e decidiamo di passare a un'altra tradizione. Nella quale restiamo fino alla prossima difficoltà...

Il fatto di sapere dove si va è sostanziale perché una piccolissimo scarto di direzione iniziale poi nel tempo porta molto lontano:




La capacità di vedere dove sto andando poi mi permette di vedere, man mano, dove mi trovo: impantanato a girare in tondo, a cadere sempre nelle stesse trappole, oppure avviato direzione che mi ero augurato.
La pratica è fatta davvero di piccolissimi passi; Thây ci insegna che la pratica è fatta anche della consapevolezza con cui ci passiamo lo spazzolino sui denti la mattina lavandoceli. (Raccontava fra l’altro che da giovane al monastero non avevano spazzolini da denti, ci si pulivano i denti con uno stecchino di legno. Poi quando ha potuto cominciare a usare lo spazzolino da denti gli è sembrato un grande lusso…) Quello che ci sembra un atto estremamente automatico, scontato, che facciamo pensando ad altro, se lo facciamo in piena presenza mentale è un passo del nostro percorso spirituale.

Concludo con un’annotazione su un commento che sento dire tanto spesso, a proposito di questo o quel passaggio nel percorso spirituale: “ma è difficile!”. A che cosa serve? A me sembra solo una zavorra, qualcosa che ci appesantisce... avete presente quei bracciali, quelle cavigliere che usano gli atleti in allenamento per potenziare la forza muscolare? Spesso dicendo “è difficile” troviamo una buona ragione per non provarci nemmeno: è un escamotage che adottiamo per sentirci poi tranquilli se non ci riusciamo o se ci riusciamo a metà, per giudicarci un po’ meno male. Il che significa che siamo rimasti ancora nel giudizio, invece che nella valutazione: che ci giudichiamo e critichiamo se non riusciamo a fare questo o quel passo. Alle volte ci diciamo che è “difficile” direttamente per non provarci. Ogni cosa, a ben pensarci, è difficile: essere un bravo chirurgo è difficile, essere un bravo papà o una brava mamma è difficile; che so, progettare un aereo è difficile, cucinare bene vegano per quaranta persone è difficile, gestire un’associazione è difficile… nessuno ci aveva garantito il contrario, vero? Stare al mondo è difficile. Oppure è facile; dipende da quello che ci raccontiamo, dall’occhio con cui lo vediamo. A ben vedere, per noi che ci troviamo qui oggi, stare al mondo è anche facile, molto facile: abbiamo un tetto sopra la testa, abbiamo cibo in abbondanza, abbiamo accesso a informazioni e insegnamenti, abbiamo facilitazioni nella vita che per una grande percentuale di umanità sono impensabili. E che forse erano impensabili anche solo per i nostri padri, i nostri nonni.

Stamattina abbiamo letto il Sutra della Felicità. Il suo vero titolo in pali è Mahamangala sutta, dove maha significa “grande” e mangala significa una cosa che porta bene, “amuleto”, “portafortuna”, o anche “benedizione”. Ricordate l’inizio? “…Molti dèi e uomini sono ansiosi di sapere quali siano le più grandi benedizioni che conducono a una vita di pace e felicità. Per favore, Tathāgata, vorresti insegnarcele?” e il Buddha risponde con un elenco: dare sostegno ai propri genitori, agli amici, fare una professione che dia gioia eccetera. Avete fatto caso che questo sutra è rivolto ai laici? Perché traccia il quadro di una vita laica ampia, completa: partendo dall’accompagnarsi con le persone sagge, passa per tutte le benedizioni in campo relazionale e sociale (la capacità di dare aiuto ai cari, fare una professione che dà delle soddisfazioni); solo poi passa all’ambito spirituale – avere contatti con i monaci e le monache significa con gli insegnamenti, con il Dharma – addentrandosi via via sempre più nel Sentiero fino a realizzare le Nobili Verità e raggiungere il nirvana. Tutte queste sono benedizioni, ma in una certa progressione: non possiamo raggiungere il Nirvana se nella nostra vita c’è un ambito – che so, la relazione con i familiari – che è un disastro, un campo che non vogliamo assolutamente vedere perché ci spaventa, e allora meglio metterci su un coperchio. Per contro, magari il nirvana non lo raggiungeremo mai, eppure realizzare ognuna di queste “benedizioni” è già di per sé “la più grande felicità”.
Ecco che cosa significa vivere in profondità il momento presente: che ogni singola parte della nostra vita è la più grande benedizione e la più grande felicità. Con questo noi realizziamo le Quattro Nobili Verità. E con questo poi raggiungiamo il nirvana. Non uno, tanti nirvana. Avete presente quella definizione meravigliosa di Thây :”siamo tutti dei Buddha part-time”? il Buddha era Risvegliato a tempo pieno, ecco tutto. Noi siamo dei Buddha part-time, a tempi più o meno lunghi; si tratta solo di allungare sempre di più il tempo della buddhità, di essere sempre più capaci di vivere da vivi il momento presente.

Il nostro percorso spirituale dunque parte da ogni singolo istante; riparte da adesso, dai tre suoni di campana con cui il mio cuore si collega con ognuno di voi, in questa sala, questa mattina.


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