13/12/10

UNA SPIRITUALITA CHE TRASFORMA

di KEN WILBER

Secondo Ken Wilber La religione ha sempre svolto due funzioni importantissime e molto diverse. Una è di dare un senso al sé individuale. Al sé viene semplicemente offerto un nuovo modo di pensare o percepire la realtà. Tuttavia, a un certo punto del nostro processo di maturazione, questa traslazione, per quanto adeguata e salda, cessa di consolare. Nessun nuovo credo, mito, idea o paradigma tamponerà l'affiorare dell'ansia. L'unico sentiero utile non è un nuovo credo per il sé, ma la trascendenza di quest'ultimo.

Ken Wilber non ha bisogno di presentazioni. Genio riconosciuto già nella sua epoca, questo prolifico autore è stato universalmente elogiato per la sua sintesi, critica e innovativa, tra la filosofia orientale e quella occidentale; inoltre, viene considerato da molti uno degli astri più luminosi del moderno mondo spirituale. Le sue idee vantano sempre più seguaci tra persone di estrazione ideologica diversissima; tuttavia egli, praticante buddista, resta fieramente indipendente, allineato solo al valore della sua ricerca. Incurante del rischio di suscitare controversie, è stato duramente criticato per aver messo in dubbio, in modo franco e coraggioso, molte delle idee più care al moderno status quo progressista.
Ma è proprio questa sua qualità, cioè l’implacabile passione per la ricerca genuina – una qualità molto rara nel moderno mondo spirituale – che troviamo decisamente tonificante.
Nel seguente saggio inedito, Ken Wilber parla dal cuore, implorando ciascuno di noi a raccogliere la sfida di abbracciare “una spiritualità che trasforma”.
La redazione di “What Is Enlightenment”

Ken Wilber: Una spiritualità che trasforma
Hal Blacker, collaboratore della rivista What is Enlightenment?, ha descritto l’argomento di questo numero speciale della rivista nel seguente modo (trascrivo integralmente le sue parole, benché tali concetti appaiano anche in altri parti di questo numero, per l’incisività, la chiarezza e il grande buon senso che dimostrano):
“Vogliamo affrontare un argomento delicato, ma ineludibile: la superficialità di gran parte della ricerca e dei discorsi spirituali in occidente, soprattutto negli Stati Uniti. Troppo spesso, traslando le tradizioni mistiche dell’oriente (e di altre aree geografiche) nell’idioma occidentale, la profondità viene appiattita, la radicalità diluita, il potenziale per la trasformazione rivoluzionaria soffocato. Il modo in cui ciò avviene sembra spesso sottile, in quanto le parole degli insegnamenti sono quasi sempre le stesse. Tuttavia, attraverso un apparente gioco di prestigio che riguarda, forse, il contesto e quindi, in ultima analisi, il significato, il messaggio dei maggiori insegnamenti sembra spesso trasformarsi dal ruggito appassionato della liberazione in qualcosa di più simile al gorgoglio di una calda vasca da bagno californiana. Esistono delle eccezioni, ma le implicazioni radicali dei più grandi insegnamenti vengono in tal modo perdute. Vogliamo indagare questa diluizione della spiritualità in occidente, mettendone a fuoco le cause e le conseguenze”.
Vorrei analizzare questa affermazione, scomponendola nei punti fondamentali e commentandoli al meglio delle mie possibilità. Infatti tali punti, presi insieme, illuminano il cuore stesso della crisi della spiritualità occidentale.
Ken Wilber

Traslazione o trasformazione
In una serie di libri (per esempio: A Sociable God, Up from Eden e The Eye of Spirit) ho cercato di dimostrare che la religione ha sempre svolto due funzioni importantissime e molto diverse. Una è: dare un senso al sé individuale. Essa offre miti, storie, leggende, racconti, riti e rievocazioni che, presi insieme, aiutano il sé individuale a dare un senso e a sopportare i colpi e gli strali di una fortuna avversa. Di solito, questa funzione della religione non muta necessariamente il livello di consapevolezza di una persona. Non comporta una trasformazione radicale né una rivoluzionaria liberazione dal sé individuale. Piuttosto, consola, fortifica, difende e promuove il sé. Si crede fermamente che, fino a quando il sé individuale crederà nei miti, compirà i rituali, dirà le preghiere o abbraccerà il dogma, sarà “salvato”: adesso, nella gloria dei prediletti del Signore o della Dea, o in un aldilà che garantisce meraviglie eterne.
Ma la religione ha anche svolto la funzione – di solito, in una minoranza molto, molto piccola – di garantire una trasformazione radicale e liberatoria. Tale funzione della religione non fortifica il sé individuale, ma lo scuote dalle fondamenta. Non la consolazione, ma la distruzione; non il consolidamento, ma il vuoto; non il compiacimento, ma l’esplosione; non il conforto, ma la rivoluzione. In breve, non un sostegno tradizionale alla coscienza, ma una trasmutazione e una trasformazione radicali nel più profondo della consapevolezza stessa.
Esistono molti modi per definire queste due importanti funzioni della religione. La prima funzione – cioè creare significato per il sé – è una forma di movimento orizzontale; la seconda funzione – quella della trascendenza del sé – è una forma di movimento verticale (più elevata o profonda, a seconda della tua metafora). La prima l’ho definita “traslazione”, la seconda “trasformazione”.
Con la traslazione, al sé viene semplicemente offerto un nuovo modo di pensare o percepire la realtà. Al sé si dà un nuovo credo: forse olistico invece che atomistico, relazionale invece che analitico, esaltando magari il perdono anziché il biasimo. A quel punto, il sé impara a traslare il suo mondo e il suo essere nei termini di questo nuovo credo, linguaggio o paradigma; e tale nuova e affascinante traslazione riesce, almeno temporaneamente, ad alleviare o diminuire il terrore innato nel cuore del sé individuale.
Ma con la trasformazione, questo stesso procedimento di traslazione viene sfidato, osservato, eroso alle fondamenta e infine smantellato. Con la tipica traslazione si offre al sé (o al soggetto) un nuovo modo di concepire il mondo (o gli oggetti); ma con la trasformazione radicale il sé viene indagato, analizzato, afferrato per la gola e letteralmente strangolato fino alla morte.
Per finire, mettiamola così: con la traslazione orizzontale – che è di gran lunga la funzione della religione più diffusa, prevalente e condivisa – il sé diventa, almeno temporaneamente, felice nella sua avidità, contento nella sua schiavitù e soddisfatto di fronte a quel terrore che è, in realtà, la sua condizione intima. Con la traslazione, il sé entra come un sonnambulo nel mondo, inciampa miope e intontito nell’incubo del samsara, si aggira nel pianeta con l’aiuto della morfina. Ma questa, in realtà, è la condizione comune dell’umanità religiosa, la stessa che i seguaci della spiritualità trasformativa o radicale sono arrivati a sfidare e, infine, distruggere.
Infatti, la trasformazione autentica non riguarda il credere, ma la morte di colui che crede; non è questione di traslare il mondo, ma di trasformarlo; si tratta di trovare non il sollievo, ma l’infinito dall’altro lato della morte. Il sé non viene appagato, ma ucciso.
Ebbene, anche se sto chiaramente prendendo le parti della trasformazione a scapito della traslazione, la realtà è che entrambe, da un punto di vista generale, sono incredibilmente importanti ed essenziali. Gli individui, per la maggior parte, non nascono illuminati; vengono alla luce in un mondo di peccato e sofferenza, speranza e paura, desiderio e
disperazione; vengono partoriti come ego pronti e desiderosi di contrarsi, pieni di fame, sete, lacrime e terrore. E iniziano molto presto a imparare vari modi per traslare il loro mondo, dargli un senso e un significato, difendendosi dal terrore e la tortura che non si celano mai troppo lontano dall’allegra superficie del sé individuale.
E per quanto noi (intesi come io e te) desideriamo trascendere la mera traslazione per trovare un’autentica trasformazione, nondimeno la traslazione stessa è una funzione assolutamente necessaria e cruciale per la gran parte della nostra vita. Coloro che non riescono a traslare adeguatamente, con un’opportuna dose di integrità e accuratezza, cadono rapidamente vittima di gravi nevrosi e persino di psicosi: il mondo cessa di avere senso; i confini tra il sé e il mondo non vengono trascesi, bensì cominciano a sbriciolarsi. Questo non è il risveglio, ma il crollo; non la trascendenza, ma il disastro.
Tuttavia, a un certo punto del nostro processo di maturazione, la traslazione in sé, per quanto adeguata e salda, cessa di consolare. Nessun nuovo credo, mito, idea o paradigma tamponerà l’affiorare dell’ansia. L’unico sentiero utile non è un nuovo credo per il sé, ma la trascendenza di quest’ultimo.
Però il numero di individui pronti per un tale sentiero è, è sempre stato, e presumibilmente sempre sarà, una piccolissima minoranza. Per la maggior parte delle persone, qualsiasi fede religiosa ricadrà nella categoria della consolazione: sarà una nuova traslazione orizzontale che darà forma a qualche significato in mezzo alla mostruosità del mondo. E nella maggior parte dei casi, la religione ha sempre svolto (in modo egregio) questa prima funzione.
Ecco perché uso anche la parola “legittimità” per descrivere tale prima funzione (la traslazione orizzontale e la creazione di senso per il sé individuale). E la maggior parte dell’importante ruolo svolto dalla religione è fornire legittimità al sé: legittimità alle sue credenze, ai suoi paradigmi, alla sua visione del mondo e al suo cammino in esso. Questa funzione della religione di fornire una legittimità al sé e alle sue credenze – per quanto temporanea, relativa, non-trasformativa o illusoria – è stata nondimeno l’unica grandissima e fondamentale funzione delle tradizioni religiose mondiali. La capacità di una religione di dare un senso orizzontale, una legittimità e una sanzione al sé e alle sue credenze: tale funzione della religione è stata, storicamente, l’unico e più grande “collante sociale” di cui disponga una cultura.
E non è facile, né è cosa da poco, manomettere il collante fondamentale che tiene insieme le società. Infatti, spessissimo, quando quel collante si scioglie – quando quella traslazione viene meno – il risultato, come stavamo dicendo, non è il risveglio ma il crollo, non la liberazione ma il caos sociale (ritorneremo tra un istante su questo punto importantissimo).
Laddove la religione traslatoria offre legittimità, la religione trasformativa offre autenticità. Per quei pochi individui che sono pronti – cioè, stanchi della sofferenza del sé individuale e non più capaci di abbracciare la visione del mondo legittima – un’apertura trasformativa alla vera autenticità, illuminazione e liberazione esercita un richiamo sempre più forte. E, a seconda della tua capacità di soffrire, prima o poi risponderai al richiamo dell’autenticità, della trasformazione, della liberazione sull’orizzonte perduto dell’infinito.
La spiritualità trasformativa non cerca affatto di sostenere o legittimare alcuna presente visione del mondo, ma di fornire la vera autenticità frantumando ciò che il mondo considera legittimo. La consapevolezza legittima viene sanzionata dal consenso, adottata dalla mentalità del branco, abbracciata tanto dalla cultura quanto dalla controcultura, promossa dal sé individuale come il modo di dare senso a questo mondo. Ma la consapevolezza autentica si scuote rapidamente di dosso tutto ciò, abituandosi a vedere solo la radiosità dell’infinito nel cuore di tutte le anime e respirando nei suoi polmoni nient’altro che l’atmosfera di un’eternità così semplice da risultare incredibile.
La spiritualità autentica, trasformativa, è quindi rivoluzionaria. Essa non legittima il mondo, ma lo distrugge; non lo consola, ma lo frantuma. E non appaga il sé, ma lo disfa.
E questi fatti portano a molteplici conclusioni.

Chi vuole davvero trasformarsi?
È credenza diffusa che l’oriente trabocchi letteralmente di spiritualità trasformativa e autentica, mentre l’occidente – sia storicamente che nell’odierna “New Age” – non ha niente altro da offrire che varie forme di spiritualità orizzontale, traslatoria, meramente legittima e quindi debole. In questo c’è qualcosa di vero, ma la realtà è molto più cupa, tanto per l’oriente quanto per l’occidente.
Innanzitutto, anche se è generalmente vero che l’oriente ha prodotto un numero più grande di ricercatori autentici, l’effettiva percentuale della popolazione orientale impegnata nell’autentica spiritualità trasformativa è, ed è sempre stata, miserevolmente bassa. Una volta chiesi a Katigiri Roshi, con cui ebbi la mia prima esperienza di risveglio (non di crollo, si spera) quanti autentici grandi maestri di ch’an e di zen fossero esistiti. Senza esitazioni, egli mi rispose: «Forse un migliaio in tutto». A un altro maestro zen chiesi quanti maestri zen autenticamente illuminati – profondamente illuminati – fossero vivi nel Giappone odierno, e lui rispose: «Non più di una dozzina».
Assumiamo, per amore della discussione, che queste siano solo risposte vaghe. Esaminiamo i numeri. Anche se affermiamo che in tutta la storia sono esistiti solo un miliardo di cinesi (una stima estremamente bassa), ciò vuol dire che solo mille persone su un miliardo hanno raggiunto una spiritualità autentica e trasformativa. Per chi tra voi non ha una calcolatrice, questo equivale allo 0,0000001 della popolazione totale.
E questo vuol dire, indubbiamente, che il resto della popolazione era (ed è) dedita, al massimo, a vari tipi di religione orizzontale, traslatoria e meramente legittima: pratiche magiche, credenze mitiche, preghiere consistenti in petizioni egoiche e così via. In altre parole, a vie traslatorie per dare senso al sé individuale, una funzione traslatoria che è stata (come stavamo dicendo) il maggiore collante sociale della cultura cinese (e di tutte le altre) fino a oggi.
Quindi, senza volere in alcun modo sminuire il contributo davvero straordinario delle grandi tradizioni orientali, la realtà è semplicissima: la spiritualità radicale e trasformativa è estremamente rara, in qualsiasi tempo e in ogni area geografica (per l’occidente, i numeri sono ancora più deprimenti. Non aggiungo altro).
Dunque, anche se possiamo giustamente lamentarci del numero esiguo di occidentali alla ricerca di una realizzazione spirituale autentica e radicalmente trasformativa, non commettiamo l’errore di affermare che in epoche precedenti o in altre culture le cose erano molto diverse. In certi momenti, in occidente è andata un po’ meglio di adesso, ma il fatto rimane: la spiritualità autentica è un uccello incredibilmente raro, in qualsiasi luogo e tempo. Quindi, cominciamo dal fatto incontrovertibile che la spiritualità autentica, verticale e trasformativa è uno dei gioielli più preziosi dell’intera tradizione umana, precisamente perché, come tutti i gioielli preziosi, è straordinariamente raro.
Secondo, anche se io e te siamo profondamente convinti del fatto che la più importante funzione che possiamo svolgere è offrire un’autentica spiritualità trasformativa, la realtà è che molto di ciò che dobbiamo fare – nella nostra capacità di portare una spiritualità decente nel mondo – è offrire modi di traslazione più utili e benevoli. In altre parole, anche se stiamo praticando, od offrendo, un’autentica spiritualità trasformativa, gran parte di ciò che dobbiamo innanzitutto fare è fornire alla gente un modo più adeguato di traslare la sua condizione. Dobbiamo cominciare con utili traslazioni, prima di poter offrire efficacemente autentiche trasformazioni.
La ragione è questa: se un individuo (o una cultura) viene privato troppo rapidamente, bruscamente o maldestramente della traslazione, il risultato (ancora una volta) non è il risveglio, ma il crollo; non la liberazione, ma il collasso. Lasciatemi fare due brevi esempi.
Quando Chögyam Trungpa Rinpoche, un grande (anche se controverso) maestro tibetano, venne per la prima volta in America, divenne famoso perché, alla domanda sul significato di Vajrayana, rispondeva sempre: “Esiste solo Ati”. In altre parole, esiste solo la mente illuminata, ovunque tu rivolga lo sguardo. L’ego, il samsara, maya, le illusioni… Non dobbiamo liberarci di alcuno di essi, perché in realtà non esistono: in qualsiasi punto dell’esistenza c’è solo Ati, lo Spirito, Dio, la Consapevolezza non duale.
In pratica, nessuno lo capì; nessuno era pronto a questa comprensione radicale e autentica dell’onnipresente verità. Quindi, alla fine Trungpa introdusse un’intera serie di pratiche “minori” che conducevano a questa estrema e radicale “non-pratica”. Propose le nove Yana come base della pratica; ovvero, nove stadi o livelli della pratica culminanti nella “non-pratica” finale dell’onnipresente Ati.
Molte di queste pratiche erano semplicemente traslatorie, e alcune erano ciò che potremmo definire “pratiche trasformative minori”: trasformazioni in scala ridotta che rendevano il corpo-mente più aperto all’illuminazione radicale già esistente. Queste pratiche traslatorie e minori conducevano alla “pratica perfetta” della non-pratica, o alla comprensione radicale, istantanea e autentica che, sin dall’inizio, esiste solo Ati. Quindi, anche se la trasformazione finale era il primo obiettivo e il fondamento onnipresente, Trungpa dovette introdurre delle tecniche traslatorie e minori per preparare la gente all’ovvietà di ciò che è.
Esattamente la stessa cosa successe con Adi Da, un altro influente (e ugualmente controverso) esperto della materia (ma stavolta americano). Egli, all’inizio, non insegnava altro che “la via della comprensione”: non un cammino per conseguire l’illuminazione, ma un’indagine sui motivi per i quali, in primo luogo, si desidera raggiungerla. Il desiderio stesso di cercare l’illuminazione, in realtà, non è altro che una manifestazione dell’avidità dell’ego, e quindi è la ricerca stessa dell’illuminazione a impedire quest’ultima. La “pratica perfetta” non è la ricerca dell’illuminazione, ma un’indagine sui motivi della ricerca stessa. Ovviamente, sei alla ricerca per evitare il presente, ma è solo il presente a contenere la risposta: una ricerca eterna vuol dire mancare il punto per sempre. Poiché sei già sempre lo Spirito illuminato, ricercare quest’ultimo equivale semplicemente a negarlo. Non puoi conseguire lo Spirito più di quanto non puoi ottenere i tuoi piedi o acquisire i tuoi polmoni.
Nessuno lo capì. E così Adi Da, esattamente come Trungpa, introdusse un’intera serie di pratiche traslatorie e meno trasformative – di fatto, sette stadi di pratica – in grado di portarti al punto in cui potevi fare a meno di qualsiasi ricerca, aprendoti all’onnipresente verità della tua condizione eterna e senza tempo, completamente e totalmente presente sin dall’inizio, ma brutalmente ignorata nel frenetico desiderio della ricerca.
Ebbene, qualsiasi cosa tu possa pensare di questi due esperti, resta il fatto: essi misero in atto forse i primi due grandi esperimenti in questo paese per introdurre il concetto “Esiste solo Ati”, c’è solo lo Spirito. Di conseguenza, la ricerca dello Spirito è esattamente ciò che impedisce la realizzazione. Ed entrambi scoprirono che, per quanto noi si sia presenti ad Ati, alla verità trasformativa di questo momento, pratiche traslatorie e meno trasformative sono quasi sempre un prerequisito per quella trasformazione finale e totale.
Il mio secondo punto, allora, è che, oltre a offrire una trasformazione radicale e autentica, dobbiamo essere sensibili e attenti alle numerose e benefiche varietà delle pratiche minori e traslatorie. Questo atteggiamento più generoso richiede quindi un “approccio integrale” alla trasformazione complessiva, un approccio che onori e incorpori molte pratiche traslatorie e meno trasformative – coprendo l’aspetto fisico, emotivo, mentale, culturale e comunitario dell’essere umano – come preparazione ed espressione della trasformazione finale nello stato onnipresente.
E quindi, pur criticando giustamente la religione meramente traslatoria (e tutte le forme minori di trasformazione), dobbiamo anche comprendere che un approccio integrale alla spiritualità unisce il meglio dell’orizzontale e del verticale, del traslatorio e del trasformativo, del legittimo e dell’autentico. Indirizziamo dunque i nostri sforzi verso una concezione generale sana ed equilibrata della situazione umana.

Saggezza e compassione
Ma questo mio punto di vista non è terribilmente elitario? Buon Dio, spero di sì. Quando vai a una partita di basket, speri di vedere me o Michael Jordan? Quando ascolti musica pop, stai pagando per sentire me o Bruce Springsteen? Quando vuoi un buon libro, preferisci me o Tolstoy per una lettura serale? Quando paghi 64 milioni di dollari per un quadro, quest’ultimo sarà dipinto da me o da Van Gogh?
Qualsiasi eccellenza è elitaria. Ciò include anche l’eccellenza spirituale. Ma quest’ultima è un’eccellenza alla quale siamo tutti invitati. Prima ci dirigiamo dai grandi maestri: Padmasambhava, Santa Teresa d’Avila, Gautama il Buddha, Lady Tsogyal, Emerson, Eckhart, Maimonide, Shankara, Sri Ramana Maharshi, Bodhidharma, Garab Dorje. Ma il loro messaggio è sempre lo stesso: lascia che questa consapevolezza che è in me sia anche in te. Si comincia elitari e si finisce egalitari, sempre.
Ma nel mezzo c’è l’irosa saggezza che urla dal cuore: dobbiamo, tutti, avere sempre di mira l’obiettivo radicale e totalmente trasformativo. Quindi, qualsiasi tipo di spiritualità integrale o autentica implicherà sempre una critica intensa e occasionalmente polemica dal campo trasformativo a quello meramente traslatorio.
Se usiamo le percentuali del ch’an cinese come esempio generale, esse mostrano che se lo 0,0000001 della popolazione pratica la spiritualità genuina e autentica, lo 0,9999999 coltiva una fede non-trasformativa, non-autentica, meramente traslatoria od orizzontale. E questo vuol dire – ebbene sì – che la spiritualità della stragrande maggioranza di “ricercatori spirituali” in questo paese (e altrove) è assai poco autentica. È sempre stato così ed è così anche adesso. Questo paese non fa eccezione.
Ma nell’America di oggi, ciò dà molto più fastidio, perché la grande maggioranza di praticanti spirituali spesso crede di rappresentare la “prima linea” della trasformazione spirituale, il “nuovo paradigma” che muterà il mondo, la “grande trasformazione” di cui essi sono l’avanguardia. Ma molto spesso, essi non sono affatto trasformativi; sono meramente, ma aggressivamente, traslatori. Non offrono mezzi efficaci per smantellare profondamente il sé, bensì semplici modi di farlo pensare diversamente; non percorsi di trasformazione, ma nuove vie per traslare. In realtà, ciò che la maggior parte di loro offre non è una pratica o una serie di pratiche, la sadhana, il satsang, il shikan-taza o lo yoga. Ciò che la maggior parte di loro offre è semplicemente il consiglio: leggi il mio libro sul nuovo paradigma. Tutto ciò è molto disturbato e profondamente disturbante.
Pertanto, le autentiche realtà spirituali hanno l’anima e il cuore delle grandi tradizioni religiose, ma faranno sempre due cose allo stesso momento: apprezzeranno e praticheranno le pratiche traslatorie e minori (dalle quali di solito dipende il loro successo), ma grideranno anche con tutto il cuore che la traslazione da sola non è sufficiente.
E dunque, tutti coloro ai quali la trasformazione autentica ha inciso profondamente l’anima devono, credo, vedersela con il profondo obbligo morale di proclamare dal cuore – forse in modo calmo e tranquillo, con lacrime di riluttanza; forse con passione infuocata e irosa saggezza; forse con un’analisi ponderata e precisa; forse con un indiscutibile esempio pubblico – ma in un modo o nell’altro, l’autenticità pone sempre e assolutamente una richiesta e un obbligo: parlare a voce alta, al massimo delle tue capacità, scuotendo l’albero spirituale e indirizzando il tuo fascio di luce negli occhi di chi si sente appagato. Devi lasciare che quella realizzazione radicale rimbombi nelle tue vene e scuota chi ti circonda.
Ahimè! Se non farai così, starai tradendo la tua autenticità e nascondendo la tua vera condizione. Non vuoi turbare gli altri perché non vuoi turbare te stesso. Stai agendo in malafede, stai propendendo verso la malvagità.
Perché, vedi, il fatto allarmante è che qualsiasi profonda realizzazione comporta un peso enorme. A chi è consentito vedere, viene allo stesso tempo imposto l’obbligo di comunicare tale visione in modo chiaro. Questo è l’accordo. Ti è stato permesso di vedere la verità a patto di comunicarla agli altri (ecco il significato fondamentale del voto del bodhisattva). E quindi, se hai visto, devi semplicemente dirlo chiaro e forte. Parla con compassione, con irosa saggezza o con abilità oratoria, ma parla.
Questo è davvero un peso terribile, orribile, perché non c’è posto per la timidezza. Il fatto che potresti avere torto non è, semplicemente, una scusa. Nella tua comunicazione potresti avere torto o ragione, ma questo non importa. Ciò che conta, come Kierkegaard ce lo ha ricordato tanto bruscamente, è che solo esprimendo la tua visione con passione, la verità può alla fine, in un modo o nell’altro, fare breccia nella riluttanza del mondo. Solo la tua passione dimostrerà se hai torto o ragione. È tuo dovere far conoscere quella scoperta – in un modo o nell’altro – e quindi esprimerla con tutto il coraggio e la passione che puoi trovare nel cuore. Devi urlare, in un modo qualsiasi.
Il mondo volgare sta già urlando, e con un astio così rauco che le voci più autentiche si odono a mala pena. Il mondo materialista è già pieno di pubblicità e attrattive, adescamenti e richiami commerciali, saluti di benvenuto e inviti ad avvicinarsi. Non voglio essere duro qui, perché dobbiamo rispettare tutte le attività minori. Ciononostante, avrai notato che la parola “anima” è, in questo momento, quella che vende meglio sulla copertina dei libri; e ciò che “anima” vuol dire, nella maggior parte di questi libri, è semplicemente l’ego sotto mentite spoglie. La parola “anima” ormai denota, in questa frenesia traslatoria, non ciò che in te è senza tempo, ma ciò che si agita producendo più rumore. “Cura dell’anima”, incomprensibilmente, non vuol dire altro che una concentrazione intensa sul sé fieramente individuale. In modo simile, “spirituale” è sulle labbra di tutti, ma di solito tutto ciò che indica è un’intensa sensazione egoica, così come “cuore” è finito con il significare qualsiasi sincero sentimento di autocontrazione.
Tutto ciò, in verità, è solo il vecchio gioco traslatorio, vestito a festa per andare in città. Queste cose potrebbero essere più che accettabili se non fosse per l’allarmante fatto che tali manovre traslatorie vengono aggressivamente definite “di trasformazione”, quando, naturalmente, non sono altro che una nuova serie di abili traslazioni. In altre parole, sembra esserci (ahimè!) una profonda ipocrisia dietro il gioco di prendere qualsiasi nuova traslazione e definirla “la grande trasformazione”. E il mondo in generale – oriente od occidente, nord o sud – è, ed è sempre stato, per la maggior parte, totalmente sordo a questa calamità.
E quindi, stante la misura della tua autentica realizzazione, stavi davvero pensando di sussurrare educatamente all’orecchio di quel mondo mezzo sordo? No, amico mio, devi urlare. Urla dal cuore ciò che hai visto, urla in qualsiasi modo ti viene.
Ma non indiscriminatamente. Usiamo attentamente questo urlo trasformativo. Lasciamo che piccole sacche di spiritualità autenticamente trasformativa, di vera spiritualità, concentrino i loro sforzi e trasformino i propri studenti. E lasciamo che queste sacche comincino a estendere la loro influenza lentamente, attentamente, responsabilmente e umilmente, abbracciando un’assoluta tolleranza per tutti i punti di vista, ma cercando sempre di sostenere una spiritualità vera, autentica e integrale. Per esempio, con la radiosità, il sollievo naturale, l’incontestabile liberazione che essa provoca. Lasciamo che queste sacche di trasformazione persuadano gentilmente il mondo e i suoi ego riluttanti, sfidandone la legittimità, le traslazioni limitate e offrendo un risveglio dall’intorpidimento generale.
Cominciamo qui e ora, da noi, da me e te. Impegniamoci a respirare nell’infinito fino a quando quest’ultimo sarà l’unica realtà che il mondo riconoscerà. Lasciamo che i nostri volti risplendano di una trasformazione radicale; che dal nostro cuore e dal nostro cervello ruggisca e risuoni una semplice, ovvia realtà: tu, nell’immediatezza della tua consapevolezza presente, sei di fatto il mondo intero, in tutti i suoi alti e bassi, in tutta la sua gloria e grazia, in tutti i suoi trionfi e lacrime. Non vedi il sole, sei il sole; non ascolti la pioggia, sei la pioggia; non senti la terra, sei la terra. E in tale contesto, semplice, chiaro e indubitabile, la traslazione è cessata in tutti i campi: ti sei trasformato nel Cuore stesso del Cosmo. Là, proprio là, molto semplicemente e in silenzio, tutto è disfatto.
A quel punto, la meraviglia e il rimorso, il sé e gli altri ti saranno ugualmente estranei; l’esteriore e l’interiore non avranno alcun significato. E nello shock di tale indubitabile riconoscimento – in cui il mio maestro è il sé, il sé è il cosmo in generale e quest’ultimo è la mia anima – camminerai con grande levità nella foschia di questo mondo, trasformandolo interamente senza fare nulla.
E allora, allora e solo allora, scriverai distintamente, attentamente e in modo compassionevole, sulla pietra tombale di un sé mai esistito: “Esiste solo Ati”.

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